venerdì 30 maggio 2008

Arbeit macht frei

Anche due vitelloni italiani come me e il dottore non potevano, trovandosi in quel di Cracovia, non fare visita al campo di concentramento di Auschwitz.
Questo ovviamente è il nome che i nazisti diedero al paesino di Oświęcim, sottraendogli perfino la dignità ai polacchi di dare un nome alle loro città.
Dal centro città, in auto, anche sbagliando strada, in meno di un'ora ci si arriva.
La giornata era abbastanza soleggiata, ma il caldo era sopportabile, un pò meno lo era il dolore al mio tallone, risultato della giornata precedente al parco acquatico.
Claudicando ci avviamo all'ingresso della zona "museo", quello che era il campo di sterminio infatti, adesso è stato adibito a museo, il campo di concentramento invece, che dista meno di un chilometro, prende il nome di Birkenau, e lo abbiamo tenuto per la seconda parte della giornata.
All'ingresso del museo moltissima gente affolla la ampia sala dove cartelli in tutte le lingue spiegano nel dettaglio tutta la vasta programmazione giornaliera di visite guidate e audio guide.
Io e il dottore che detestiamo le gite guidate, ovviamente decidiamo di visitarcelo da soli.
Anche perchè ad ogni passo, un cartello multilingua, come un eco della memoria racconta e descrive l'orribile scenario che regnava in quel punto nemmeno poi tanti anni orsono.
Ricordo che uno dei primi pensieri che attraversò la mia mente, girando per il campo, fu che tutti gli alberi presenti, molto probabilmente, sono stati testimoni di quanto accaduto.
Il pensiero che quella stessa corteccia, alla quale appoggiavo la schiena per riposare un secondo, potesse essere stata avvolta, un pò di anni prima, dall'acre e macabro fumo proveniente dai comignoli che avevo davanti ai miei occhi, era una cosa che mi rattristava moltissimo.
Ma gli alberi non provano sentimenti, e le loro foglie vanno dove tira il vento, senza curarsi molto delle conseguenze, e il vento infatti in quegli anni era di un nero soffocante, ma le loro foglie sono rimaste verdi come la speranza, la speranza di una fine, che finalmente prima o poi è arrivata.
Credo che ognuno di noi dovrebbe, almeno una volta nella vita, farsi un giro da quelle parti, per rendersi conto la follia umana a cosa può arrivare, e, cosa ancor più tragica, non quella di un singolo individuo, ma di una nazione intera!
Soprattutto perché di "lager" è ancora pieno il mondo, hanno nomi diversi, li camuffano con nomi del tipo CPT, Guantanamo, Bolzaneto, ma il minimo comune denominatore è identico, ovvero la violenza dell'uomo su altri simili privati della propria dignità.
Uscimmo dal museo di Auschwitz verso l'ora di pranzo, e in un baracchino antistante l'ingresso consumammo un paio di bibite ed un panino con il wurstel.
Dopo la sosta, passata quasi in silenzio rimuginando sulla atroce galleria di immagini che la nostra mente aveva conservato, salimmo nuovamente in auto per andare a visitare anche il campo di concentramento, ovvero dove i deportati arrivavano e venivano smistati.
Da una parte del binario gli "abili" ai lavori forzati, dall'altra i morti, ovvero i destinati al campo di sterminio.
Quello che terrorizza varcando l'ingresso di Birkenau è l'immensa vastità del campo. Si estende quasi a perdita d'occhio. Migliaia di baracche, originariamente stalle concepite per ospitare 25 cavalli, contenevano circa 150 esseri umani ognuna.
In ogni "letto", cioè quattro assi una affianco dell'altra vi erano ammassate decine di mucchietti di ossa con occhi, ovvero quel che rimaneva degli uomini, donne e bambini che venivano "ospitati" nel campo, per guadagnarsi la "libertà" col lavoro.
Anche il pomeriggio trascorse in fretta, passeggiando per i lunghissimi viali del campo, con il mio piede che piano piano si era fatto sempre meno dolorante, ché il dolore fisico aveva piano piano lasciato il posto ad un dolore psicologico, una grossa tristezza innscata dalla visita a quei luoghi.
Il viaggio di ritorno in macchina trascorse in silenzio, mentre dall'autoradio accesa salivano le note che accompagnavano questa canzone:

Son morto ch'ero bambino
son morto con altri cento
passato per un camino
e ora sono nel vento
Ad Auschwitz c'era la neve
il fumo saliva lento
nei campi tante persone
che ora sono nel vento
Nei campi tante persone
ma un solo grande silenzio
che strano, non ho imparato
a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come puo` un uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone
ancora non e` contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sara`
che un uomo potra` imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà

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