venerdì 6 giugno 2008

Un vecchio e un bambino ci preser per mano

- Cazzo! Abbiamo solo venti giorni di vacanza, non due mesi. Non possiamo restare nemmeno un giorno di più a Cracovia! -
E' questo che ci siamo detti col dutùr, alla fine della prima settimana di ferie spesa in quel di Cracovia.
Nostro malgrado ci toccava lasciare l'albergo Alexander, non rivedere mai più i larghi occhi chiari della receptionist ( quella che ci aveva suggerito il parco acquatico ... 'tacci sua -ndr-) , la grande piazza centrale con il mercato coperto al centro, acquario nel quale avevamo tanto giocato a correre e rincorrerci con simpatiche donzelle, esche dalle lunghe gambe e dai vestitini sgargianti ed un pò demodé.
Dire addio agli scoppiettanti localini sotterranei e ai loro baristi, che oramai conoscevamo tutti, addio alle zuppe con carne, brodo, cipolle e patate ( non ci crederete ma sono ottime!), addio alla Vistola, ma soprattutto addìo a Bielsko-Biala, che nel nostro immaginario coincideva con Cracovia.
Bando alla malinconia, la lunga strada bianca ci stava chiamando, e noi eravamo li apposta per rispondere.
L'idea era quella di spingerci verso Nord.
Ad est eravamo già abbastanza, adesso una bella virata verso Nord era quello ci voleva, per andare a rincorrere il fresco, scappato dove la vegetazione mediterranea inizia a lasciare il posto alle alte conifere dalla corteccia dura.
Capimmo presto che il nostro mezzo di trasporto non era esattamente l'ideale per attraversare la Polonia.
L'autostrada infatti non esisteva, e l'unica strada che tagliava longitudinalmente il paese era una statale dissestata, e infestata da lunghi e scarburati TIR dalle targhe illeggibili, carri bestiame, automobili anni '60, e qualche posto di blocco.
Con questi ultimi oramai, dopo l'avventura slovacca, avevamo maturato una certa esperienza.
Non ci siamo fatti cogliere impreparati infatti alla prima prova di socializzazione con gli sbirri polacchi.
Solite domande in lingua polacca, solito nostro sguardo sbasito, e solita domanda "italien ? ".
Solito inglese maccheronico, solito passaporto con già dentro una banconota da 20 euro, soliti saluti ,e solito scrocco di indicazione stradale con auguri di buon viaggio da parte dei gendarmi.
La campagna polacca è immensa.
Si estende a perdita d'occhio, infinite distese color oro riflettono la luce del pallido sole rendendo necessari gli occhiali scuri per proteggersi dal riverbero.
Le canzoni si susseguivano numerose nel lettore dell'automobile, come numerosi erano i pensieri che si affacciavano, sotto forma di timidi sorrisi, sul mio viso rivolto verso il finestrino.
La polonia è le sue città.
Fuori non c'è niente davvero. Solo campagne, grano, carri, e piccoli agglomerati urbani riconoscibili quasi esclusivamente dal cartello "Skola", grande e colorato, che fa capolino in parte alla carreggiata.
Ad un certo punto terrore!
Incomprensibili cartelli gialli con una scritta illeggibile nera, ed un disegno stilizzato, ci fanno intendere che, causa lavori, la strada maestra per Varsavia era interrotta, e veniva "suggerita" una semplice deviazione.
Il dutùr ovviamente, anche abbandonata la strada principale, guidava con la stessa sicurezza e velocità con la quale guida nelle campagne bergamasche, ed io non avendo il tempo di localizzare sulla mappa le accozzaglie di lettere, alias nomi di paesi, lette sui cartelli, non potevo indicargli una rotta certa, col risultato che nel giro di venti minuti ci trovammo in una strada sterrata che portava ad una fattoria!
Credo che i proprietari di quella fattoria, due anziani contadini polacchi, non avessero mai visto una audi verde bottiglia coi cerchi in lega, in tutta la loro vita.
Il nostro arrivo venne accolto come l'atterraggio di una navicella spaziale.
Dalle numerose porte, situate sui lati della fattoria, cominciarono ad uscire frotte di bambini e ragazzini di tutte le età, figli, nipoti e pro nipoti dei due vecchi.
Circondarno la macchina e ci condussero all'interno della corte della fattoria, dove un grande spiedo, sul quale girava un capretto, diffondeva nell'aria un profumo irresistibile, soprattutto per le nostre pance che oramai avevano dimenticato il panino del pranzo.
Il vecchio, scoprimmo essere di origini italiane, quindi, con grande conforto scoprimmo che biascicava qualche parola, che unita alle risposte in bergamasco del dutùr, fecero si che i due si capissero perfettamente.
Il risultato fu che ci tennero con loro a cena, ad approfittare del capretto allo spiedo, e ci avrebbero ospitato anche a dormire, che, secondo il vecchio, non era consigliabile che noi ci si mettesse di nuovo alla guida dopo cena.
Due ore dopo capimmo il perchè.
Sceso il capretto dallo spiedo, il vecchio, aiutato dai ragazzi più giovani, andò a prendere una damigiana di un rosso polacco che tenevano al fresco in un ripostiglio dietro la cascina.
Un foro nel sughero, un tubo di gomma con un rudimentale rubinetto all'estremità, e il gioco fu fatto.
L'esperienza di bere vino direttamente dalla damigiana, a volontà, la sperimentai solo una volta in vita mia.
A 20 anni, alla festa di primavera della facoltà di Agraria.
All'epoca il bere dalla damigiana fu un pretesto per incontrare la gnocca universitaria, quella sera servì per dimenticare la gnocca, almeno per quella sera, e godermi la calda accoglienza di una famiglia di sconosciuti, che ci aveva accolto come amici fossimo sempre stati.
La notte passò in un lampo, coccolati dal vino, dal capretto e dai sogni, si fecero subito le sette del mattino, orario in cui io e il dutùr la sera prima avevamo deciso di alzarci.
Come da accordi andammo via che la famiglia ancora dormiva, ché tutti i saluti e ringraziamenti li avevamo già fatti la sera prima.
Io poi detesto salutare una persona quando so che non la rivedrò mai più.
Decisi dunque di salutare il vecchio e la moglie con un arrivederci, un pò perchè non si sa mai, e un pò per non affidare a quel saluto l'ineluttabilità di un addìo.
Per educazione rifacemmo i letti e lasciai un paio di CD sul comodino per una delle figlie del vecchio, che amava, mi disse, la musica che ci eravamo portati in macchina.
Sulla copertina scrissi il mio indirizzo email, e fu quella la prima volta che scrissi il mio numero e la mia mail ad una gnocca non con l'intenzione di trombarla, ma perchè davvero mi avrebbe fatto piacere risentirla per sapere come andavano le cose.
Anche quando non ci si vede mai con qualcuno a cui si tiene, basta un saluto, una telefonata, e le distanze ed il tempo vengono cancellati.
Ogni tanto ancora ci scriviamo, ed è stato con mio grande dolore che prima di natale venni a sapere che il vecchio padre di origini italiane era passato a miglior vita.
La sua morte non cancellerà mai però dalla mia mente l'immagine del grande uomo che era stato.
Con nostra grande sorpresa tutto quel vino non ci aveva lasciato nessun postumo.
Quando si dice che il vino, quando è genuino, e non avvelenato dal mercato, se ne può bere a volontà senza troppi problemi, lo confermammo quella mattina, quando, puntuali come orologi alle sette e trenta del mattino saltammo sull'audi freschi e pimpanti come due germogli.
Peccato che avevamo completamente scordato le indicazioni del vecchio, quindi sul fronte orientamento, era tutto da rifare
Quell'esperienza era però ben valsa la perdita della giusta rotta.
Grazie al fato, alla mappa, e a qualche indicazione stradale chiesta qua e la, riuscimmo a rimetterci sulla statale maestra, scoprendo che Varsavia, oramai , distava solo meno di un centinaio di chilometri.
Qualche rapido conto ci fece presto capire che avevamo percorso circa 300 chilometri di deviazione, in mezzo alle campagne polacche, prima di rimetterci in bolla sulla giusta strada.
Quando lentamente il giallo del grano ed il verde delle campagne iniziavano a lasciare posto a squallide periferie stile bolscevico, intuimmo che la capitale della polonia si stava avvicinando sempre di più.
Nel giro di un'ora infatti ci trovammo circondati da immensi palazzoni grigi, con lunghe file di filenestre tutte uguali e senza imposte, dalle quali spesso faceva capolino o una parabola o uno stenditoio con collezioni di calze e mutande mal lavate.
Si era fatta l'ora di pranzo, e siccome a stomaco vuoto non si è in grado di prendere decisioni riguardo alla rotta, si decise di fermarsi a mangiare qualcosa in uno squallido ristorante di periferia.
Il ristorante ovviamente era deserto, e penso che pieno non lo sia mai stato, considerando lo stupore letto nella faccia della cameriera, che ci mise parecchio ad accorgersi che qualcuno era entrato.
Di pronto non avevano nulla, ci toccò quindi attendere parecchio, col vantaggio di poter scegliere il menu che volevamo, muovendoci all'interno della non vastissima scelta di ingredienti a loro disposizione, e di avere il tempo per pianificare il proseguo del viaggio.
Varsavia è nel Nord della polonia, poco distante dal confine con la bielorussia e con la lituania.
La prima era pericolosa, il vecchio polacco infatti ci raccontò che da quelle parti è in voga ancora il brigantaggio, e col calar delle tenebre una bella macchina come la nostra non passava certo inosservata ai briganti russi e ucraini, trafficanti d'armi, che infestano quelle zone.
Dopo aver scartato la terza possibilità, che era quella di virare verso occidente, per raggiungere la regione dei laghi, sulla direzione per Danzica, d'estate meta di famigliole polacche alla ricerca di uno specchio d'acqua nella quale immergersi, e fare canottaggio, non ci restò che apprendere bene la rotta da tenere per entrare in Lituania prima che facesse buio, ché anche li, il brigantaggio non era una pratica desueta.
Considerando che erano le tre del pomeriggio, eravamo confidenti di riuscire a raggiungere il confine lituano entro il tramonto, e di passare la notte nella prima cittadina lituana oltre confine, in attesa, il giorno dopo, di far tappa a Vilnius, meta della seconda parte della nostra vacanza.

1 commento:

Anonimo ha detto...

troppo forte zio! contattami!!
dannytruelove@hotmail.it
che voglio il nome di questa spa!!!
grazie
daniele