martedì 10 giugno 2008

La creatura delle conifere

Ora la strada aveva iniziato a farsi interessante.
Lasciata alle spalle la capitale polacca, imboccammo la statale per Suvalki.
Le indicazioni non era difficile seguirle, quelle di nostro interesse erano sempre accompagnate dalla parola "Lietuva", che in lingua significano appunto Lituania.
Le distese color grano della polonia centrale, e il triste grigiore di Varsavia, li stavamo oramai dimenticando, dando in pasto ai nostri occhi, avidi di paesaggi diversi da quelli ai quali eravamo abituati, lunghe file di conifere altissime, e molto vicine tra loro, che componevano tratti di foresta nelle quali, come una ruga, si faceva spazio la strada che stavamo percorrendo.
Ad un tratto spuntarono, da dietro un albero proprio a bordo strada, un paio di lunghissime gambe con la pelle color madreperla, che terminavano in uno dei più bei fondoschiena femminili che io abbia mai avuto la fortuna di vedere.
Il dutùr tirò una inchiodata che i bagagli, appoggiati alla meno peggio sul sedile posteriore, mi finirono diritti sulla nuca, facendomi capire che quella visione non era affatto un sogno.
Guardando bene, nascosta tra gli alberi, trovava posto anche una piccola baracca, anch'essa in legno, con tutto rispetto del paesaggio, dove probabilmente la pulzella andava a consumare la sua danza di sospiri, effusioni e avvinghiamenti con il forestiero di turno, molto probabilmente un camionista.
Quella statale infatti era frequentata esclusivamente dai T.I.R, e da qualche autobus che fa la spola tra Varsavia e Vilnius.
In questo via vai di giganti della strada eravamo coinvolti anche io ed il dottore, con la nostra audi verde bottiglia. Anche lei rispettava il colore del paesaggio :)
Ricordo che quella inchiodata, anche se in verità fu solo un forte rallentamento di qualche istante, per noi ebbe la durata di una eternità, nella quale decidere se andare a fare un pò di compagnia alla stupenda ragazza delle conifere, o tirare diritto, che tanto in quel di Vilnius ci saremmo sicuramente rifatti.
La nostra incapacità di prendere decisioni importanti in pochi istanti ci fece proseguire, affidando la giunonica creatura delle conifere al magazzino dei ricordi, e, forse all'unico vero rimpianto di quella incredibile vacanza.
Il viaggio proseguì immaginando e fantasticando su quello che sarebbe potuto accadere dentro a quella baracca immersa dentro alla macchia.
Ancora adesso, a distanza di tempo, per me ed il dutùr il termine "conifera" è diventato sinonimo di bellissima fanciulla dagli aperti costumi sociali.
La cosa che ci colpì fu che quello fu un caso del tutto isolato, non ne avremmo mai più vista nemmeno una.
Come tutte le più belle creature, infatti, la conifera è apparsa solo una volta, dandoci solo una possibilità: aut-aut.
Decidemmo di abbandonarla nel sottobosco, e il prezzo da pagare fu la sua esclusività.
Tra una conifera e l'altra però si stava facendo sera, e il ricordo del fondoschiena ampio e rotondo della conifera stava lasciando il posto all'ansia dei briganti, quando ci ricordammo del mònito del vecchio polacco.
Il sole calava molto più in fretta di quanto noi eravamo in grado di avvicinarci al confine, e di conseguenza al primo centro abitato dove pernottare.
Finalmente, quando oramai il tramonto era rosso sangue, pronto al viraggio verso il nero notte, superammo un cartello che prometteva la frontiera con la lituania a pochi chilometri.
Riprendemmo fiato e interrompemmo il canticchiare di chi ha paura, iniziando a cercare i documenti per l'ingresso in lituania.
Non sapevamo nulla di quel paese, proprio perchè sulla Polonia ci eravamo un minimo documentati prima di partire, ma sulla lituania, essendo una destinazione presa on the road, non avevamo nessuna informazione.
Di tutti i dubbi che ci assalirono quello peggiore era che fosse in vigore l'alfabeto cirillico.
Sarebbe stata la nostra rovina.
Arriviamo in frontiera, ovviamente deserta, e veniamo accolti da un paio di militari in tenuta mimetica, e con kalashnikov alla mano, che si rivolgono a noi in russo.
L'espressione dipinta sul viso del dutùr mentre tirava fuori i passaporti per consegnarli al militare me la ricordo ancora adesso, come anche quella del collega frontaliero che con una frase incomprensibile, ma con un cenno inconfondibile, mi intimò di aprire il bagagliaio.
Scesi dalla macchina osservando l'amico del dutùr che se ne andava con i nostri passaporti e lentamente andai verso il bagagliaio aiutanto lo sbirro a estrarre i bagagli, per evitare che facesse cascare tutto per terra sull'asfalto oramai umido di condensa.
Fu un controllo lungo e minuzioso, a tratti estenuante, come quando per esempio estrasse dal mio beautycase un blister di pillole per la pressione che avevo tolto dalla scatola per risparmiare spazio.
Far capire al bolscevico che cosa fossere quelle pastiglie non fu facile, ma fortunatamente dopo un pò si convinse, e mi acconsentì di ricostruire il mio tetris di valige ben riposte nel bagagliaio.
La mia lezione di farmacologia applicata tenuta al militare era durata circa un'ora, e nel frattempo del suo collega, e dei nostri documenti soprattutto, nemmeno l'ombra.
La notte oramai era arrivata, come la certezza di dover attraversare la tundra lituana nottetempo, cosa che avremmo evitato come la peste.
Ingannammo l'attesa osservando i lunghi autoarticolati carichi di belle macchine con targhe europee che si accingevano ad entrare in lituania, per essere probabilmente vendute al mercato nero. Dalla targa di uno di quei bolidi pendevano ancora le bestemmie del proprietario a cui era stata rubata.
Finalmente dal gabbiotto uscì il bolscevico con i nostri documenti in mano e potemmo fare il nostro ingresso in lituania.
Essendo ovviamente anche la moneta differente dagli zloti polacchi, prima tappa obbligatoria fu il cambiavalute un chilometro dopo la frontiera.
Il dutùr decide di non scendere dalla macchina e di restare su con il motore acceso, dando a me duecento euro da cambiare, dicendomi di andare io a cambiare.
Entrai nel gabbiotto e mi misi in fila con i camionisti attendendo il mio turno.
Arrivato davanti alla bella impiegata con i biondi capelli schiacciati sulla testa e fissati con una forcina che da noi andava di moda vent'anni fa, gli consegnai i soldi e domandai lei di cambiarmeli in litas.
Vidi che iniziò a tirare fuori dei pacchi assurdi di banconote grandissime e, ad uno ad uno me li consegnò.
Non vi dico le facce dei camionisti bielorussi, uno di questi addirittura, con un ghigno di intesa in un inglese stentato ma comprensibilissimo mi disse: "Attention, a lot of money!".
Corsi in macchina dal dutùr con la foga di uno che ha appena sbancato un casinò, e partimmo sgommando facendo rotta verso Kaunas, ovvero il centro abitato più vicino.
Per quanto vicino distava sempre un centinaio di chilomentri, e a quell'andatura, dettata dalle condizioni dell'asfalto, non ci avremmo potuto mettere meno di un paio d'ore.
Questo significava arrivare a Kaunas verso mezzanotte, con la grande incognita di dover anche trovare un hotel decente, con posto auto sorvegliato, per trascorrere le poche ore che ci dividevano dall'alba.
Riprendemmo a canticchiare e a mandar giù grossi fiotti di saliva ogni volta che incrociavamo i fari di un'auto.
Ad un tratto i cartelli iniziarono a raccontarci che il centro città distava meno di 5 chilometri, ma il panorama sembrava smentirli, nemmeno una luce o un segno di vita.
Confidenti nella segnaletica arrivammo infatti in pochi minuti nella civiltà.
La città era però addormentata, quasi come noi, e capimmo in fretta che evidentemente Kaunas non risalta per night-life nelle guide sulla lituania.
Oramai era tardi quindi la scelta dell'hotel non poteva essere complicata da noiosi cavilli economici, quindi ci dirigemmo in pieno centro e sostammo nel migliore hotel della città, che in effetti aveva un costo un pò sopra la media lituana, ma se paragonato ai prezzi di noialtri era equivalente ad una pensione tre stelle in una località qualunque della riviera romagnola.
Parcheggiata l'audi verde bottiglia, consumata una frugale cena in un fast-food e fumato il nostro sigaro di rito nell'ampio e deserto viale centrale, iniziammo a pensare su come spendere ( è proprio il caso di dire) la nostra prima notte.
La prima opzione era quella di rientrare in hotel e di chiedere al portiere della compagnia per la notte.
La seconda possibilità era di adare a cercar conifere in città, magari in qualche night.
Optammo per la seconda, lasciandoci la prima per le prossime serate, in caso di magra.
Non avevamo intenzione di muovere nuovamente la macchina, e dover affrontare nuovamente le tenebre attorno a kaunas, quindi gironzolammo un pò a piedi per il centro, cercando un passante adatto a cui poter domandare.
Non fu difficile trovarlo, svoltato un incrocio si avvicinò a noi un signore di mezza età con gli occhi azzurro cieco e gli occhiali sporchi come i fanali di un autotreno arrivato in cima al passo Pordoi.
Sentendo i nostri commenti a voce alta ci confessò di essere anche lui italiano, ghigno da emigrante impantanato lassù per affari. Un altro modo per non dire di essere un gran puttaniere.
Infatti in meno di 5 minuti ci snocciolò tutto il panorama sexi che Kaunas poteva offrire.
Andò a finire che ci accompagnò in un bel locale, stile night-club con le poltrone in velluto rosso, dispose con ordine davanti a un grande palco, in mezzo al quale, come un raggio di luce proveniente dal'alto, si conficcava un lucente palo d'acciaio.
Ad un tratto la musica da soffusa si fece assordante, le luci si abbassarono e sul grande palco salì una ragazza, molto alta ma non troppo magra, con due grandi occhi sui quali sbattevano come persiane lunghe ciglia finte e incatramate di mascara.
Il locale era pressoché deserto, ed essendo gli unici avventori solo io, il dutùr e il signore di mezza età conosciuto pochi minuti prima, non fu difficile immaginare la bella ukraina su chi si avventò.
In quei momenti il cervello di un uomo è come se venisse meno, forse per il calo di pressione causato dal sangue impegnato a riempire altre zone del corpo.
Elargimmo infatti alla bionda maggiorata quasi tutte le banconote che ci eravamo portati dietro quella sera, (fortunatamente il cambio era a nostro favore) senza nemmeno poter arrivare al fondo del cammino tracciato nelle nostre menti dal desiderio!
Rientrammo in hotel che era quasi l'alba.
Il portiere ci osservò sorridendoci con uno di quei ghigni di chi ti vuole comunicare qualcosa.
Sapevamo benissimo cosa, e, anche se non lo saprà mai, gli abbiamo anche dato ragione.

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