giovedì 19 giugno 2008

dove c'è pelo c'è amore

La città di Vilnius non offre molto a dire il vero, inoltre se ti allontani dal centro storico lo fai a tuo rischio e pericolo.
La periferia della capitale lituana infatti non trasuda certo senso di sicurezza da ogni cantone.
Alti e goffi palazzoni grigi, tutti identici e malmessi già dall'esterno, con grandi colonne portanti conficcate a vista nell'asfalto come piedi di un gigante di cemento, fanno da contorno a stradone deserte e poco illuminate, dove qua e la qualche losco figuro ogni tanto fa capolino.
Le automobili non sono molto utilizzate dalla gente comune.
Le poche che vedi in giro, a parte quelle commerciali, e i piccoli furgoncini delle consegne, sono per lo più taxi, qualche macchinone di gente d'affari, o sgangherati rottami dai quali esce musica assordante, con a bordo qualche balordo locale, tamarro baltico, che, convinto di essere a Miami, se ne va in giro per la città, anche con venti gradi sotto zero, col finestrino abbassato ed il gomito appoggiato fuori.
Considerato quindi il desolante paesaggio al di fuori delle mura del centro l'unica era trovare un passatempo diurno non troppo lontano dal centro.
L'ideona venne al dutùr, frutto di una probabile associazione di idee del tipo paese freddo - saune - gnocche sudate , decidemmo di andare a vedere se era possibile iscriversi in un bel centro sportivo che offrisse palestra e centro benessere.
Sfogliando i vari depliants che ci erano stati lasciati in camera non fu difficile trovare il posto che faceva al caso nostro, era un bellissimo centro sportivo di nuova apertura, proprio vicino al nostro hotel.
Aveva anche una bella terrazza, con vista sulla città, sulla quale avevano allestito un simpatico bar-ristorantino all'aperto dal quale si poteva godere di una suggestiva veduta della città.
Entriamo nella hall del centro sportivo, e un russo in giacca e cravatta, tipico personaggio da film sulla mafia russa, in un inglese nemmeno troppo maccheronico, ci ricopre di salamelecchi e ci chiede subito quanti giorni ci saremmo fermati in quel di Vilnius.
Cinque giorni faccio io, special offer for you, for five days .... fa lui.
Chissà se avessi detto dieci giorni, sicuramente sarebbe esistita una special offer di dieci giorni ;)
Ad ogni modo vada per la special offer, che in effetti "special" lo era davvero, per spendere praticamente lo stipendio medio di un lituano in cinque giorni di ingresso libero in una palestra.
Entriamo, e un lussuosissimo spogliatoio, con armadietti in legno e lavandini in marmo, ci da il benvenuto.
Spogliatoio deserto alle 15 del pomeriggio, a parte un panzone biondo sulla cinquantina, probabilmente omosessuale, che sorrideva al dutùr ogni qual volta si incrociavano gli sguardi.
Entriamo nella palestra e immediatamente il nostro immaginario si smontò.
Deserta anch'essa.
Proviamo la piscina, ma di gente nemmeno l'ombra.
Sconsolati non ci rimaneva che tentare l'ultima carta, la sauna. Del resto nell'idea principale del dottore c'era proprio il desiderio di intrattenersi tra i caldi vapori aromatizzati, sperando di incrociare qualche avvenente creatura che condivideva lo stesso desiderio.
I locali sauna e idromassaggio, come spesso accade nelle SPA è separato dalla zona piscina e palestra, e puoi solo fare ingresso in accappatoio, ciabatte e, giustamente ( non come qua da noartri che è vietato ) senza costume.
Un rapido salto in spogliatoio per indossare la "tenuta" da SPA e in men che non si dica siamo davanti alla porta a vetri, dove un campanello ci obbliga a suonarlo per avvisare del nostro arrivo.
Ci venne ad aprire una ragazza che nella mia vita ne ho viste poche di così carine e ben fatte. Alta almeno un metro e ottanta, capelli biondi a caschetto, con una frangia che cadeva diritta sulla fronte, fermandosi, quasi come per rispetto, appena sopra le lunghe e simmetriche soppracciglia che facevano da cornice a due stupendi occhi color verde bottiglia.
Indossava il camice bianco, ma agli esperti occhi miei e del dutùr non era sfuggito il fatto che sotto al camice indossava a mala pena la biancheria intima.
Si rivolge a noi direttamente in inglese chiedendoci che cosa desideravamo: accantonata la dovuta risposta attizzata da tanto slendore, le dicemmo che volevamo passare un pò di tempo nella SPA, in particolare idromassaggio e sauna.
Mentre ci accompagna verso la vasca dell'idromassaggio, inizia a dirci che il centro poteva offrire anche tutta una serie di massaggi mooolto rilassanti eseguiti da lei e da una sua collega.
Non fu difficile posticipare il momento sauna al post-massaggio, e in men che non si dica ci dividemmo, io ed il dottore, io con la bella receptionist e lui con la collega, proni su due futon.
Mi sdraiai nudo sul futon, a pancia in giù, attendendo qualche minuto Marja che si era andata a preparare.
Dopo poco fu di ritorno nella stanza, abbassò le luci e accese lo stereo, ad un volume sufficientemente alto da creare la giusta privacy con il circostante, ma non tanto da impedire una piacevole conversazione durante il massaggio.
Le sue mani correvano sapienti sul mio corpo, sapienti nel senso che sapevano dove andare per darmi maggior piacere, stimolando cervello, muscoli e zone erogene nel giusto equilibrio.
Gli sfioramenti tra i glutei si facevano sempre più frequenti, come volesse iniziare a prendere confidenza con quello che presto sarebbe diventato il centro di comandi a sua disposizione per il mio piacere.
Dopo circa un'ora mi dice se volevo girarmi a pancia all'insù, e devo dire che accolsi di buon grado tale proposta in quanto mi era diventato sempre più difficile tenere la posizione prona.
Gli effetti benefici del suo massaggio erano infatti già molto evidenti e finsi una sorta di imbarazzo per capire lei da che parte stava, il suo sorrisino malizioso, condito da un "non ti preoccupare il massaggio lo fa" mi confermò l'idea che con Marja questo massaggio sarebbe stato veramente completo.
Il massaggio proseguì per circa un'altra ora, lei si soffermava molto sulla zona del mio ventre, poiché aveva capito che gradivo parecchio la cosa, e mentre le sue mani coccolavano il mio corpo, i suoi occhi spesso incrociavano il mio sguardo in maliziosi cenni di intesa.
Ad un certo punto mi disse che iniziava a sentire caldo e mi domandò se poteva levarsi il camice.
Non penso sia difficile immaginare la mia risposta, e quando il camice cadde al fianco del suo corpo, sul futon, la visione che apparve ai miei occhi fu davvero indimenticabile.
Due grossi e sodi seni naturali erano la portata principale del banchetto che mi si era presentato davanti.
Marja si chinò su di me, continuando il massaggio con il seno, non tralasciando nessuna parte del mio corpo, e, quando iniziai ad accarezzarla, vidi che lei non aveva nulla in contrario, anzi, pareva gradire la cosa, così che senza ovviamente farmi pregare iniziai a mia volta a contraccambiare quel suo massaggio.
Fu così che in poco tempo quello che era iniziato come un normale massaggio, si trasformò in qualcosa di davvero erotico e speciale, ovvero in quello che si chiama "tantra", cioè una prolungata esperienza sessuale che ha l'obiettivo di prolungare e massimizzare il desiderio sessuale, rimandando il più possibile l'orgasmo.
In nostri due corpi avvinghiati in un nodo di piacere rotolavano di qua e di la nell'angusto stanzino, travolgendo a volte la boccetta di olio, altre quella del talco.
Dopo circa due ore però, sfiniti entrambi, decidemmo di fermare il dado, in un lunghissimo e più che mai desiderato, orgasmo.
Restammo nudi, a lume di candela, per circa quindici minuti parlando poco e guardandoci molto negli occhi.
Parlare poco perchè dopo una esperienza del genere c'è ben poco da dire, e i suoi larghi occhi chiari rendevano impossibile in non perdercisi dentro.
Dopo l'esperienza di Bliesko-Biala questa è stata la seconda volta che mi innamorai, e, considerando che erano passati 5 giorni, direi che la vacanza non stava procedendo male !
All'uscita incontrai il dutùr, che anche lui aveva parecchio gradito il massaggio, e, come due buoni compagni di viaggio che non hanno bisogno di parole per capirsi all'istante, ci incamminammo verso l'hotel gustandoci il sapore della sera, che piano piano stava arrivando.
Il sole stava velocemente scendendo dietro le montagne e l'aria si stava facendo sempre più fresca, un leggero vento aveva iniziato a soffiare inesorabile, diffondendo nell'aria l'acre odore della carne untissima cucinata da una bancarella messa in disparte, in un angolo della grande piazza.
Quell'odore e quel fumo, come a dire che esisteva anche lei, anzi, la notte, all'uscita dai locali si prendeva la rivincita sul giorno, quando, affollata di gente, vinceva la sua partita.
Io e il dottore eravamo un pò come quella bancarella, di giorno quasi non esistevamo, il nostro teatro era la notte, con tutto quello che di notte può accadere, ma questo e argomento del prossimo post!

mercoledì 11 giugno 2008

Tram scollegato da ogni distanza

- Tra meno di tre ore il sole sarà di nuovo qui a trovarci, devo cercare di riposare un pò -
Mentre mi dicevo queste parole la mia mente si era già allontanata, indietro nel tempo.
Inziai a pensare quando mi era nata questa passione per i viaggi.
Ricordo che sin da bimbo ero attratto dalle cose che portavano lontano.
Le chiamavo così allora, treni, tram, autostrade, aerei, qualunque cosa mi avesse concesso una chance di allontanamento da casa, nutriva in me un grande fascino.
Molte volte ricordo che salivo su tram a caso, scollegato da ogni distanza, senza una meta precisa, l'unica cosa importante è che facesse capolinea dall'altra parte della città.
Per un bimbo nato e vissuto in una zona centrale, la periferia rappresenta un mondo sconosciuto e lontano, e la circonvallazione esterna quasi le colonne d'Ercole.
Passavo lunghe ore sui tram ad osservare la città dove son nato, in silenzio e pensando.
Forse fu proprio dando vita a quel passatempo curioso che iniziò l'amore per la mia città, che mi porto stretto fino ad oggi.
Crescendo, il mio rapporto con le mura casalinghe non migliorò di molto.
Nonostante iniziai prima o poi ad abitare da solo, a volte per toccare l'illusione di libertà e restare, da buona anima salva, un pò con me stesso, mi isolavo in lunghe corse in automobile di notte sulle autostrade deserte.
Macinando gasolio e chilometri riuscivo a prendere le decisioni migliori della mia vita.
Tuttora a volte mi accade di prendere la macchina e gironzolare. Soprattutto quando devo decidere qualche cosa di importante!
La società autostrade per natale mi manda tutti gli anni infatti gli auguri!
Fu proprio cullandomi tra questi ricordi che quella notte presi sonno, e qualche sogno erotico mi accompagnò fino al suono della sveglia, puntata alle ore sette e trenta, in modo da essere pronti per partire alla volta di Vilnius prima delle otto.
Da Kaunas a Vilnius non c'è molta strada da fare, poi l'autostrada lituana non era nemmeno paragonabile alle bitorzolute statali polacche.
Era una autostrada quasi decente, oltretutto gratis e molto scorrevole.
Mi colpiva il fatto che veniva percorsa anche dagli autobus di linea, i quali lasciavano studenti e pendolari a bordo strada, sotto fatiscenti pensiline che distavano si e no trenta centimetri dalla linea bianca di demarcazione fine carreggiata.
Questa gente non faceva tempo a scendere che si trovava i capelli portati via dal risucchio di un grosso autotreno che da qualche chilometro seguiva il bus dal quale erano scesi.
In circa un'ora arrivammo in quel di Vilnius, capitale della Lituania, paese che fino al giorno prima rappresentava il selvaggio e sconosciuto est, "quello vero ... e sono cazzi!" (citazione Marrakech-Express ndr ) ma nel quale solo dopo un giorno ci trovavamo già di casa.
Vilnius è una cittadona, anche lei sembra piovuta dal cielo come un asteroide in mezzo alla tundra, ma nei suoi meandri trovano posto palazzoni e grattacieli che nulla hanno da che invidiare a quelli delle più note capitali europee.
Anche li per scegliere l'hotel seguimmo lo stesso criterio della sera prima.
Direzione centro, albergo top della gamma.
Il nome non lo ricordo, ma era a cinque minuti a piedi dal centro storico, e aveva numerose bandiere che sventolavano sulla facciata principale, come tante mani colorate che salutavano il nostro arrivo. Non sono proprio le ballerine haitiane che ti porgono la corona di fiori, ma ero certo che di "ballerine" ne avremmo trovate in abbondaza anche nella fredda lituania ;)
La hall era molto lussuosa, in stile high-tech, dava proprio l'idea del classico hotel frequentato da uomini d'affari, e io ed il dutùr centravamo infatti come una nocciolina nel vov con quei colletti bianchi.
Domandammo due stanze matrimonali alla bella e fredda receptionist, la quale dopo qualche rapida verifica sul terminale, ci consegnò due tessere magnetiche con serigrafato sopra il numero di stanza.
Fortunatamente era un periodo in cui non c'era nessun evento o fiera, così che l'albergo era mezzo vuoto, e ci vennero assegnate due stanze attigue.
Autonomia notturna si, ma stare su piani differenti no!
Tempo di buttare finalmente gli abiti in un armadio, dopo giorni rinchiusi in valigia e io e il dutùr eravamo nuovamente in pista, ritrovo nella hall, per andare a fare du' passi in centro città e sgranocchiare un boccone al sole.
Il clima era ideale, simile a quello che c'è da noi in montagna col sole. Ventilato e fresco, per nulla afoso. In una sola parola: l'ideale.
Trovammo posto in un simatico localino coi tavoli fuori.
Il classico posto simil bistrot francese, con tavolini molto piccoli e sedie scomodissime, però essendo l'unico con i tavoli all'aperto decidemmo di rinunciare alle comodità, in virtù di un pò di relax al fresco sole lituano.
Azzannando un bel filetto al sangue, accompagnato da una bella bottiglia di vino rosso cileno, ricordo che col dutùr facemmo un patto, se così si può dire.
Era certo che in quei giorni, in qualche modo, si sarebbe conosciuto qualche donna.
E sarebbe stato veramente troppo fortuito se l'avessimo trovata entrambe e nello stesso momento.
Molto più probabile invece che la si incontrasse in tempi diversi, o, ipotesi alla quale nemmeno volevamo pensare, che uno dei due mai la trovasse, e fosse costretto ad un amore mai in esclusiva, sempre con qualcosa da pagare.
Ad ogni modo, nessuno dei due avrebbe per nessun motivo dovuto rinunciare a proseguire una conoscenza con una appartenente del sesso opposto per non lasciare "solo" l'amico.
Il primo che "beccava" doveva andare fino in fondo, l'altro si sarebbe arrangiato in qualche modo!
Stretta di mano, caffé e via di nuovo per i vicoli del centro alla ricerca di un passatempo pomeridiano in attesa della night-life di Vilnius.

martedì 10 giugno 2008

La creatura delle conifere

Ora la strada aveva iniziato a farsi interessante.
Lasciata alle spalle la capitale polacca, imboccammo la statale per Suvalki.
Le indicazioni non era difficile seguirle, quelle di nostro interesse erano sempre accompagnate dalla parola "Lietuva", che in lingua significano appunto Lituania.
Le distese color grano della polonia centrale, e il triste grigiore di Varsavia, li stavamo oramai dimenticando, dando in pasto ai nostri occhi, avidi di paesaggi diversi da quelli ai quali eravamo abituati, lunghe file di conifere altissime, e molto vicine tra loro, che componevano tratti di foresta nelle quali, come una ruga, si faceva spazio la strada che stavamo percorrendo.
Ad un tratto spuntarono, da dietro un albero proprio a bordo strada, un paio di lunghissime gambe con la pelle color madreperla, che terminavano in uno dei più bei fondoschiena femminili che io abbia mai avuto la fortuna di vedere.
Il dutùr tirò una inchiodata che i bagagli, appoggiati alla meno peggio sul sedile posteriore, mi finirono diritti sulla nuca, facendomi capire che quella visione non era affatto un sogno.
Guardando bene, nascosta tra gli alberi, trovava posto anche una piccola baracca, anch'essa in legno, con tutto rispetto del paesaggio, dove probabilmente la pulzella andava a consumare la sua danza di sospiri, effusioni e avvinghiamenti con il forestiero di turno, molto probabilmente un camionista.
Quella statale infatti era frequentata esclusivamente dai T.I.R, e da qualche autobus che fa la spola tra Varsavia e Vilnius.
In questo via vai di giganti della strada eravamo coinvolti anche io ed il dottore, con la nostra audi verde bottiglia. Anche lei rispettava il colore del paesaggio :)
Ricordo che quella inchiodata, anche se in verità fu solo un forte rallentamento di qualche istante, per noi ebbe la durata di una eternità, nella quale decidere se andare a fare un pò di compagnia alla stupenda ragazza delle conifere, o tirare diritto, che tanto in quel di Vilnius ci saremmo sicuramente rifatti.
La nostra incapacità di prendere decisioni importanti in pochi istanti ci fece proseguire, affidando la giunonica creatura delle conifere al magazzino dei ricordi, e, forse all'unico vero rimpianto di quella incredibile vacanza.
Il viaggio proseguì immaginando e fantasticando su quello che sarebbe potuto accadere dentro a quella baracca immersa dentro alla macchia.
Ancora adesso, a distanza di tempo, per me ed il dutùr il termine "conifera" è diventato sinonimo di bellissima fanciulla dagli aperti costumi sociali.
La cosa che ci colpì fu che quello fu un caso del tutto isolato, non ne avremmo mai più vista nemmeno una.
Come tutte le più belle creature, infatti, la conifera è apparsa solo una volta, dandoci solo una possibilità: aut-aut.
Decidemmo di abbandonarla nel sottobosco, e il prezzo da pagare fu la sua esclusività.
Tra una conifera e l'altra però si stava facendo sera, e il ricordo del fondoschiena ampio e rotondo della conifera stava lasciando il posto all'ansia dei briganti, quando ci ricordammo del mònito del vecchio polacco.
Il sole calava molto più in fretta di quanto noi eravamo in grado di avvicinarci al confine, e di conseguenza al primo centro abitato dove pernottare.
Finalmente, quando oramai il tramonto era rosso sangue, pronto al viraggio verso il nero notte, superammo un cartello che prometteva la frontiera con la lituania a pochi chilometri.
Riprendemmo fiato e interrompemmo il canticchiare di chi ha paura, iniziando a cercare i documenti per l'ingresso in lituania.
Non sapevamo nulla di quel paese, proprio perchè sulla Polonia ci eravamo un minimo documentati prima di partire, ma sulla lituania, essendo una destinazione presa on the road, non avevamo nessuna informazione.
Di tutti i dubbi che ci assalirono quello peggiore era che fosse in vigore l'alfabeto cirillico.
Sarebbe stata la nostra rovina.
Arriviamo in frontiera, ovviamente deserta, e veniamo accolti da un paio di militari in tenuta mimetica, e con kalashnikov alla mano, che si rivolgono a noi in russo.
L'espressione dipinta sul viso del dutùr mentre tirava fuori i passaporti per consegnarli al militare me la ricordo ancora adesso, come anche quella del collega frontaliero che con una frase incomprensibile, ma con un cenno inconfondibile, mi intimò di aprire il bagagliaio.
Scesi dalla macchina osservando l'amico del dutùr che se ne andava con i nostri passaporti e lentamente andai verso il bagagliaio aiutanto lo sbirro a estrarre i bagagli, per evitare che facesse cascare tutto per terra sull'asfalto oramai umido di condensa.
Fu un controllo lungo e minuzioso, a tratti estenuante, come quando per esempio estrasse dal mio beautycase un blister di pillole per la pressione che avevo tolto dalla scatola per risparmiare spazio.
Far capire al bolscevico che cosa fossere quelle pastiglie non fu facile, ma fortunatamente dopo un pò si convinse, e mi acconsentì di ricostruire il mio tetris di valige ben riposte nel bagagliaio.
La mia lezione di farmacologia applicata tenuta al militare era durata circa un'ora, e nel frattempo del suo collega, e dei nostri documenti soprattutto, nemmeno l'ombra.
La notte oramai era arrivata, come la certezza di dover attraversare la tundra lituana nottetempo, cosa che avremmo evitato come la peste.
Ingannammo l'attesa osservando i lunghi autoarticolati carichi di belle macchine con targhe europee che si accingevano ad entrare in lituania, per essere probabilmente vendute al mercato nero. Dalla targa di uno di quei bolidi pendevano ancora le bestemmie del proprietario a cui era stata rubata.
Finalmente dal gabbiotto uscì il bolscevico con i nostri documenti in mano e potemmo fare il nostro ingresso in lituania.
Essendo ovviamente anche la moneta differente dagli zloti polacchi, prima tappa obbligatoria fu il cambiavalute un chilometro dopo la frontiera.
Il dutùr decide di non scendere dalla macchina e di restare su con il motore acceso, dando a me duecento euro da cambiare, dicendomi di andare io a cambiare.
Entrai nel gabbiotto e mi misi in fila con i camionisti attendendo il mio turno.
Arrivato davanti alla bella impiegata con i biondi capelli schiacciati sulla testa e fissati con una forcina che da noi andava di moda vent'anni fa, gli consegnai i soldi e domandai lei di cambiarmeli in litas.
Vidi che iniziò a tirare fuori dei pacchi assurdi di banconote grandissime e, ad uno ad uno me li consegnò.
Non vi dico le facce dei camionisti bielorussi, uno di questi addirittura, con un ghigno di intesa in un inglese stentato ma comprensibilissimo mi disse: "Attention, a lot of money!".
Corsi in macchina dal dutùr con la foga di uno che ha appena sbancato un casinò, e partimmo sgommando facendo rotta verso Kaunas, ovvero il centro abitato più vicino.
Per quanto vicino distava sempre un centinaio di chilomentri, e a quell'andatura, dettata dalle condizioni dell'asfalto, non ci avremmo potuto mettere meno di un paio d'ore.
Questo significava arrivare a Kaunas verso mezzanotte, con la grande incognita di dover anche trovare un hotel decente, con posto auto sorvegliato, per trascorrere le poche ore che ci dividevano dall'alba.
Riprendemmo a canticchiare e a mandar giù grossi fiotti di saliva ogni volta che incrociavamo i fari di un'auto.
Ad un tratto i cartelli iniziarono a raccontarci che il centro città distava meno di 5 chilometri, ma il panorama sembrava smentirli, nemmeno una luce o un segno di vita.
Confidenti nella segnaletica arrivammo infatti in pochi minuti nella civiltà.
La città era però addormentata, quasi come noi, e capimmo in fretta che evidentemente Kaunas non risalta per night-life nelle guide sulla lituania.
Oramai era tardi quindi la scelta dell'hotel non poteva essere complicata da noiosi cavilli economici, quindi ci dirigemmo in pieno centro e sostammo nel migliore hotel della città, che in effetti aveva un costo un pò sopra la media lituana, ma se paragonato ai prezzi di noialtri era equivalente ad una pensione tre stelle in una località qualunque della riviera romagnola.
Parcheggiata l'audi verde bottiglia, consumata una frugale cena in un fast-food e fumato il nostro sigaro di rito nell'ampio e deserto viale centrale, iniziammo a pensare su come spendere ( è proprio il caso di dire) la nostra prima notte.
La prima opzione era quella di rientrare in hotel e di chiedere al portiere della compagnia per la notte.
La seconda possibilità era di adare a cercar conifere in città, magari in qualche night.
Optammo per la seconda, lasciandoci la prima per le prossime serate, in caso di magra.
Non avevamo intenzione di muovere nuovamente la macchina, e dover affrontare nuovamente le tenebre attorno a kaunas, quindi gironzolammo un pò a piedi per il centro, cercando un passante adatto a cui poter domandare.
Non fu difficile trovarlo, svoltato un incrocio si avvicinò a noi un signore di mezza età con gli occhi azzurro cieco e gli occhiali sporchi come i fanali di un autotreno arrivato in cima al passo Pordoi.
Sentendo i nostri commenti a voce alta ci confessò di essere anche lui italiano, ghigno da emigrante impantanato lassù per affari. Un altro modo per non dire di essere un gran puttaniere.
Infatti in meno di 5 minuti ci snocciolò tutto il panorama sexi che Kaunas poteva offrire.
Andò a finire che ci accompagnò in un bel locale, stile night-club con le poltrone in velluto rosso, dispose con ordine davanti a un grande palco, in mezzo al quale, come un raggio di luce proveniente dal'alto, si conficcava un lucente palo d'acciaio.
Ad un tratto la musica da soffusa si fece assordante, le luci si abbassarono e sul grande palco salì una ragazza, molto alta ma non troppo magra, con due grandi occhi sui quali sbattevano come persiane lunghe ciglia finte e incatramate di mascara.
Il locale era pressoché deserto, ed essendo gli unici avventori solo io, il dutùr e il signore di mezza età conosciuto pochi minuti prima, non fu difficile immaginare la bella ukraina su chi si avventò.
In quei momenti il cervello di un uomo è come se venisse meno, forse per il calo di pressione causato dal sangue impegnato a riempire altre zone del corpo.
Elargimmo infatti alla bionda maggiorata quasi tutte le banconote che ci eravamo portati dietro quella sera, (fortunatamente il cambio era a nostro favore) senza nemmeno poter arrivare al fondo del cammino tracciato nelle nostre menti dal desiderio!
Rientrammo in hotel che era quasi l'alba.
Il portiere ci osservò sorridendoci con uno di quei ghigni di chi ti vuole comunicare qualcosa.
Sapevamo benissimo cosa, e, anche se non lo saprà mai, gli abbiamo anche dato ragione.

venerdì 6 giugno 2008

Un vecchio e un bambino ci preser per mano

- Cazzo! Abbiamo solo venti giorni di vacanza, non due mesi. Non possiamo restare nemmeno un giorno di più a Cracovia! -
E' questo che ci siamo detti col dutùr, alla fine della prima settimana di ferie spesa in quel di Cracovia.
Nostro malgrado ci toccava lasciare l'albergo Alexander, non rivedere mai più i larghi occhi chiari della receptionist ( quella che ci aveva suggerito il parco acquatico ... 'tacci sua -ndr-) , la grande piazza centrale con il mercato coperto al centro, acquario nel quale avevamo tanto giocato a correre e rincorrerci con simpatiche donzelle, esche dalle lunghe gambe e dai vestitini sgargianti ed un pò demodé.
Dire addio agli scoppiettanti localini sotterranei e ai loro baristi, che oramai conoscevamo tutti, addio alle zuppe con carne, brodo, cipolle e patate ( non ci crederete ma sono ottime!), addio alla Vistola, ma soprattutto addìo a Bielsko-Biala, che nel nostro immaginario coincideva con Cracovia.
Bando alla malinconia, la lunga strada bianca ci stava chiamando, e noi eravamo li apposta per rispondere.
L'idea era quella di spingerci verso Nord.
Ad est eravamo già abbastanza, adesso una bella virata verso Nord era quello ci voleva, per andare a rincorrere il fresco, scappato dove la vegetazione mediterranea inizia a lasciare il posto alle alte conifere dalla corteccia dura.
Capimmo presto che il nostro mezzo di trasporto non era esattamente l'ideale per attraversare la Polonia.
L'autostrada infatti non esisteva, e l'unica strada che tagliava longitudinalmente il paese era una statale dissestata, e infestata da lunghi e scarburati TIR dalle targhe illeggibili, carri bestiame, automobili anni '60, e qualche posto di blocco.
Con questi ultimi oramai, dopo l'avventura slovacca, avevamo maturato una certa esperienza.
Non ci siamo fatti cogliere impreparati infatti alla prima prova di socializzazione con gli sbirri polacchi.
Solite domande in lingua polacca, solito nostro sguardo sbasito, e solita domanda "italien ? ".
Solito inglese maccheronico, solito passaporto con già dentro una banconota da 20 euro, soliti saluti ,e solito scrocco di indicazione stradale con auguri di buon viaggio da parte dei gendarmi.
La campagna polacca è immensa.
Si estende a perdita d'occhio, infinite distese color oro riflettono la luce del pallido sole rendendo necessari gli occhiali scuri per proteggersi dal riverbero.
Le canzoni si susseguivano numerose nel lettore dell'automobile, come numerosi erano i pensieri che si affacciavano, sotto forma di timidi sorrisi, sul mio viso rivolto verso il finestrino.
La polonia è le sue città.
Fuori non c'è niente davvero. Solo campagne, grano, carri, e piccoli agglomerati urbani riconoscibili quasi esclusivamente dal cartello "Skola", grande e colorato, che fa capolino in parte alla carreggiata.
Ad un certo punto terrore!
Incomprensibili cartelli gialli con una scritta illeggibile nera, ed un disegno stilizzato, ci fanno intendere che, causa lavori, la strada maestra per Varsavia era interrotta, e veniva "suggerita" una semplice deviazione.
Il dutùr ovviamente, anche abbandonata la strada principale, guidava con la stessa sicurezza e velocità con la quale guida nelle campagne bergamasche, ed io non avendo il tempo di localizzare sulla mappa le accozzaglie di lettere, alias nomi di paesi, lette sui cartelli, non potevo indicargli una rotta certa, col risultato che nel giro di venti minuti ci trovammo in una strada sterrata che portava ad una fattoria!
Credo che i proprietari di quella fattoria, due anziani contadini polacchi, non avessero mai visto una audi verde bottiglia coi cerchi in lega, in tutta la loro vita.
Il nostro arrivo venne accolto come l'atterraggio di una navicella spaziale.
Dalle numerose porte, situate sui lati della fattoria, cominciarono ad uscire frotte di bambini e ragazzini di tutte le età, figli, nipoti e pro nipoti dei due vecchi.
Circondarno la macchina e ci condussero all'interno della corte della fattoria, dove un grande spiedo, sul quale girava un capretto, diffondeva nell'aria un profumo irresistibile, soprattutto per le nostre pance che oramai avevano dimenticato il panino del pranzo.
Il vecchio, scoprimmo essere di origini italiane, quindi, con grande conforto scoprimmo che biascicava qualche parola, che unita alle risposte in bergamasco del dutùr, fecero si che i due si capissero perfettamente.
Il risultato fu che ci tennero con loro a cena, ad approfittare del capretto allo spiedo, e ci avrebbero ospitato anche a dormire, che, secondo il vecchio, non era consigliabile che noi ci si mettesse di nuovo alla guida dopo cena.
Due ore dopo capimmo il perchè.
Sceso il capretto dallo spiedo, il vecchio, aiutato dai ragazzi più giovani, andò a prendere una damigiana di un rosso polacco che tenevano al fresco in un ripostiglio dietro la cascina.
Un foro nel sughero, un tubo di gomma con un rudimentale rubinetto all'estremità, e il gioco fu fatto.
L'esperienza di bere vino direttamente dalla damigiana, a volontà, la sperimentai solo una volta in vita mia.
A 20 anni, alla festa di primavera della facoltà di Agraria.
All'epoca il bere dalla damigiana fu un pretesto per incontrare la gnocca universitaria, quella sera servì per dimenticare la gnocca, almeno per quella sera, e godermi la calda accoglienza di una famiglia di sconosciuti, che ci aveva accolto come amici fossimo sempre stati.
La notte passò in un lampo, coccolati dal vino, dal capretto e dai sogni, si fecero subito le sette del mattino, orario in cui io e il dutùr la sera prima avevamo deciso di alzarci.
Come da accordi andammo via che la famiglia ancora dormiva, ché tutti i saluti e ringraziamenti li avevamo già fatti la sera prima.
Io poi detesto salutare una persona quando so che non la rivedrò mai più.
Decisi dunque di salutare il vecchio e la moglie con un arrivederci, un pò perchè non si sa mai, e un pò per non affidare a quel saluto l'ineluttabilità di un addìo.
Per educazione rifacemmo i letti e lasciai un paio di CD sul comodino per una delle figlie del vecchio, che amava, mi disse, la musica che ci eravamo portati in macchina.
Sulla copertina scrissi il mio indirizzo email, e fu quella la prima volta che scrissi il mio numero e la mia mail ad una gnocca non con l'intenzione di trombarla, ma perchè davvero mi avrebbe fatto piacere risentirla per sapere come andavano le cose.
Anche quando non ci si vede mai con qualcuno a cui si tiene, basta un saluto, una telefonata, e le distanze ed il tempo vengono cancellati.
Ogni tanto ancora ci scriviamo, ed è stato con mio grande dolore che prima di natale venni a sapere che il vecchio padre di origini italiane era passato a miglior vita.
La sua morte non cancellerà mai però dalla mia mente l'immagine del grande uomo che era stato.
Con nostra grande sorpresa tutto quel vino non ci aveva lasciato nessun postumo.
Quando si dice che il vino, quando è genuino, e non avvelenato dal mercato, se ne può bere a volontà senza troppi problemi, lo confermammo quella mattina, quando, puntuali come orologi alle sette e trenta del mattino saltammo sull'audi freschi e pimpanti come due germogli.
Peccato che avevamo completamente scordato le indicazioni del vecchio, quindi sul fronte orientamento, era tutto da rifare
Quell'esperienza era però ben valsa la perdita della giusta rotta.
Grazie al fato, alla mappa, e a qualche indicazione stradale chiesta qua e la, riuscimmo a rimetterci sulla statale maestra, scoprendo che Varsavia, oramai , distava solo meno di un centinaio di chilometri.
Qualche rapido conto ci fece presto capire che avevamo percorso circa 300 chilometri di deviazione, in mezzo alle campagne polacche, prima di rimetterci in bolla sulla giusta strada.
Quando lentamente il giallo del grano ed il verde delle campagne iniziavano a lasciare posto a squallide periferie stile bolscevico, intuimmo che la capitale della polonia si stava avvicinando sempre di più.
Nel giro di un'ora infatti ci trovammo circondati da immensi palazzoni grigi, con lunghe file di filenestre tutte uguali e senza imposte, dalle quali spesso faceva capolino o una parabola o uno stenditoio con collezioni di calze e mutande mal lavate.
Si era fatta l'ora di pranzo, e siccome a stomaco vuoto non si è in grado di prendere decisioni riguardo alla rotta, si decise di fermarsi a mangiare qualcosa in uno squallido ristorante di periferia.
Il ristorante ovviamente era deserto, e penso che pieno non lo sia mai stato, considerando lo stupore letto nella faccia della cameriera, che ci mise parecchio ad accorgersi che qualcuno era entrato.
Di pronto non avevano nulla, ci toccò quindi attendere parecchio, col vantaggio di poter scegliere il menu che volevamo, muovendoci all'interno della non vastissima scelta di ingredienti a loro disposizione, e di avere il tempo per pianificare il proseguo del viaggio.
Varsavia è nel Nord della polonia, poco distante dal confine con la bielorussia e con la lituania.
La prima era pericolosa, il vecchio polacco infatti ci raccontò che da quelle parti è in voga ancora il brigantaggio, e col calar delle tenebre una bella macchina come la nostra non passava certo inosservata ai briganti russi e ucraini, trafficanti d'armi, che infestano quelle zone.
Dopo aver scartato la terza possibilità, che era quella di virare verso occidente, per raggiungere la regione dei laghi, sulla direzione per Danzica, d'estate meta di famigliole polacche alla ricerca di uno specchio d'acqua nella quale immergersi, e fare canottaggio, non ci restò che apprendere bene la rotta da tenere per entrare in Lituania prima che facesse buio, ché anche li, il brigantaggio non era una pratica desueta.
Considerando che erano le tre del pomeriggio, eravamo confidenti di riuscire a raggiungere il confine lituano entro il tramonto, e di passare la notte nella prima cittadina lituana oltre confine, in attesa, il giorno dopo, di far tappa a Vilnius, meta della seconda parte della nostra vacanza.